
… aduna i versi, rimaneggia, lima,
bilancia il manoscritto nella mano.
– Pochi giochi di sillaba e di rima:
Questo rimane dell’età fugace? …
(Guido Gozzano)
INDICE
IL BANDOLO DEL VERO
Sono disoccupato anch’io da sempre…
ma la mia giusta occupazione il bandolo del Vero
non l’ho trovata mai
(E. Montale)
la poesia non serve a nessuno –
saperla non migliora la vita
non cambia l'oriente
e le misure degli occhi –
vivo di cose inutili
da sempre
mi perdo ai crocicchi
e imbocco la prima strada
a casaccio –
se riesco a raccontarlo in metri
sembra giusto – e possibile –
se no resta incredibile –
sono nata troppo presto
o troppo tardi – non so
certo è che
non era tempo – non il mio
che non ha combaciato
con quello esterno
forestiero – mai
io ero altra non c'entravo
pensavo di poter ovviare
di aggregarmi
ma l'abito era troppo largo
o troppo corto
inadatto
al mio corpo magro –
libertà è essere soli
è non decidere
il tempo degli altri
i tè del venerdì
i pomeriggi la domenica
così lunghi d'inverno –
la libertà è cara
a chi ha catene e trincee –
costretti alle parole
come perdiamo il senso
delle cose –
che la lezione non s'impari mai
è un dato di fatto –
anni di scuola m’hanno educato
che fra insegnante e allievo
lo spazio è breve
e raramente si sa
chi sta di qua della cattedra
chi di là –
non ho imparato a ballare
né a cantare – solo a guardare
con piccoli occhi miopi – attenti
a ricercare il sotto il dentro
la sfumatura esatta –
hanno tanti anfratti le cose –
la superficie accontenta
l’iride dei sani
che hanno complete le loro diottrie
che sanno vedere anche da lontano
ogni dettaglio a grandezza
naturale – dietro le mie lenti
il mondo è più piccino
difficile da toccare
in cui sembra incredibile
stare –
temo questa solitudine
che mi prende – di me –
incautamente
me ne sono stata fuori –
dicono che dopo c'è la pazzia –
dicono che le demoiselles
Malin spauracchi notturni sono
per chi odia la luce e tien le finestre
sprangate – ma nella casa
attendono armadi
cui l'oblio è nemico –
dovevamo saperlo
che sempre viene la sera –
l'olio lo scordammo
per noi – il signore non giunse –
non c'erano lampade
accese – e non poté
vedere –
l'oro una cattedrale barocca
l'argento una tela di Burri –
di fronte a carte colorate
nient’altro riesco a pensare
(e avrei voluto farlo per il cielo
o per il mare) – sempre
ho avuto bisogno di schermi
protettori – da quei ripari
guardavo la vita in giù
e aveva senso – ma indagarla
dal di sotto
te la senti precipitare addosso
coi suoi odori – una vertigine
da non sperimentare –
(il giallo era un brandello
di retroscena
nella veduta di Delft
ma n’era valsa la pena)
conosco la sentenza
il buco e il corridoio
conosco il tempo
scandito – non dagli orologi –
annaspando troverò
angoli noti una piastrella
scollata da non inciamparci
il pertugio per l’aria
e la sedia e il tavolo
e le mie dita che vi tentano
il preludio di traviata –
e la musica che ne uscirà
ravvivata –
spero che l'aldilà
sia piccolino – una sorta di salotto
dove scambiare due parole
in pace e stanzette minuscole
in cui stare –
ma dicono sia un gran coro
d'arcangeli e serafini
e una luce accecante
lo irradii dal profondo
fino alla cimasa –
ed io come potrei
in quello spreco d’immensità
sentirmi un poco a casa?
questi anni che se ne vanno
memori di me –
incontro ad altri anni
che ignorano (e ignoreranno?)
i miei gesti i celesti occhi inquieti –
poi dirò che sono stati i migliori?
che del di più non sapevo che farne
e volevo quel meno che ho avuto?
che tu sia una presenza – viva
e non un pronome personale
sarà duro farlo intendere
a chi vede nella tua assenza
rinuncia solitudine fatica
da compatire – o riderci sopra –
credono che il tu sia depistante –
tu passato inesplorato tu sole
tu pietra e stella polare
tu destino da portare
per il mondo vasto quant’è
senza bordi da combaciare –
…
ma come può essere attore
chi è nato con la stoffa
del suggeritore?
ALTRE FELICITÀ
… come l’uccello venuto dal mare,
che tra il ciliegio salta, e non sa
ch’oltre il beccare, il cantare, l’amare
ci sia qualch’altra felicità.
(G. Pascoli)
Io son sì stanco sotto il fascio antico
oggi mi guasta il femminile –
la cicala che tutta l’estate
ha cantato
ora dorme – ignara
di formiche
epigrammatiche –
…
è che l'esistenza
si riprese
sempre tutto –
non per cattiveria
fu negligenza –
con una mano a riparo della fronte
ho scansato forse il buio
non certo la vita – s'è rinsecchita
la mia ansia insonne
ai soliloqui troppo attenta
e alle dissonanze dell'esperienza –
è tempo di ritirare i panni
il vento s'è levato
fra poco pioverà –
il mio disteso bucato
ha avuto poca storia –
riporrò ogni cosa al riparo
in attesa d'un sole più chiaro
in attesa d'un’ala di vento –
al dopo provvederà il tempo –
non voglio conoscere il tempo
che giorno sapere che mese
mi vede scrivere assorta
con la stilografica rossa –
che importa fissare momenti
minuscoli d'eternità –
ci son forse oltre il sognare
altre felicità?
vorrei vedere le cose
con gli occhi di quando ero convinta
che le migliori fossero
le non colte
fra le rose – ma
per la prudenza non basta l’età
ed io riscopro angosce e paure
nei passaggi fra
la speranza e l’incredulità –
allora sono tornata al silenzio –
una pena insostenibile
per chi aveva imparato a cantare
e scoperto il proprio talento –
ma non è mai prevedibile
ciò che potrà allertare
il prossimo evento –
tante volte m'hai chiesto
di raccontarti quali
tappe ho percorso
per giungere a te
come sono –
irrequieta prigioniera di me
così maldestra pavida tenace –
ma una vita
o la si inventa
o la si tace –
questa distanza da te che mi separa
di sabbia di deserto mare
questo desiderio mio di te
sempre più vago
(ma a volte così violento)
spingono alle velette
la coscienza assonnata
la premono
a raffiche di vento –
suggerisce la risacca
ritmi fuori tempo –
le rime sono certo beghine
ma portano spiragli
nelle mattine fonde di nebbia
con l’auto fino a scuola
e la strada non finisce
la rima intestardisce
rallenta il suono lo affretta
scandisce la frase – ridetta –
verrà il tempo dei ritorni
e la mia gioia sarà perfetta –
tremo ad anticipare la felicità –
potrebbe un dio senza giudizio
chiudermi il mare sulla testa –
ci son giorni di silenzi e giorni di poesia
–son la stessa cosa –
non possiamo arrenderci –
solo retrodatare il presente
ed aspettarci – disillusi
e poco disposti al perdono –
dov'eri nella vita di ieri
quando potevamo
innalzare cattedrali
e cedere all'abbandono?
fuori dai tuoi occhi che fare?
rider pur anco nel pianto?
accendere lampade ad uso
del buio? e poi?
è ricominciare
a inciampare –
ci vuole coraggio
a vivere soli
e disciplina –
il mondo pare
non avere un angolo
da affrontare
ad occhi spaiati –
i giorni del vento
i giorni del gelo
quelli del cielo
e dello spavento
varranno a spiegare la fretta
l'ansia dell'altezza?
se divisi fummo in terra
il cielo non ci renderà
uno – solo uno dei gesti spenti
quei pallenti rimorsi
ci accompagneranno nella guerra
del rimpianto
che non conosce oblio –
dovevamo metterlo in conto
che la rinuncia è un non ritorno
gli anni ci allenteranno gli sguardi
e sarà – comunque –
tardi –
«essere vivi e basta
non è impresa da poco»
(Eugenio Montale)
…..
certo per i non vivi
la faccenda è più banale
hanno agende fitte
di appuntamenti
e sanno sempre che il prossimo
casello autostradale
è solo un’altra meta
del viaggio –
per me è l’ignoto il male –
l’impagabile
pedaggio –
le befane delle fiabe
le han spesso canzonate
ma esse sogghignavano
sotto cappelli e baffi
che il prezzo del ridicolo
lo conoscevano da un pezzo –
i miei ricordi si sgretolano
un po’ di più ogni anno –
non avrò più passato
quest’altr’anno –
viene sempre il momento
dell'addio – ineluttabili
sconforti procrastinabili
di poche righe –
anche se credevamo
che nulla sarebbe accaduto
bastava stare attenti –
d'un tratto lo straniamento
e noi intenti ad altre cose
perdenti non distinguiamo
più i segni le tracce
il fischio di riconoscimento –
non tutte le porte aprono al cielo
qualcuna in posti solo azzurri
o in spicchi angusti di luce –
salire non è volare
è andare a passi minuscoli
è misurare gradini –
se avessi osato – tu – una volta –
le stelle
aspettavano
aspettavano
invano –
facile
morire di tristezza
e ardere d'inconsapevolezza –
quante più fatiche dense
e dinieghi costa
la tenerezza –
la mia vita trascorre senza Parigi
il tempo passa – e poi non ripassa
a ritoccare gli eventi –
i rimandi
ci lasciano sempre
perdenti –
dirti che ho amato te solo
è snellire il passato
con le armi improprie
dell'oblio
è evadere da me
dai miei perché d'un tempo
dimenticare le delusioni
crocifissioni ogni volta
d’un’anima che libera
scopriva di non essere –
è reinventare il mio malessere
in altre dimensioni –
fu vero amore?
somigliava a un dolore –
DI FIL DI FERRO E SPAGO
… beato chi ha le musiche importanti
le orchestre, luci, viole sviolinanti
non queste mie di fil di ferro e spago…
(F. Guccini)
devo aver cominciato
a scrivere di poesia al rovescio –
non indugi in paesaggi
allusivi – non miti
o grandi amori disperati
da stigmatizzare – ma dopo –
dopo si usa la lente
che separa l'immanente
dal transitorio –
dopo –
non il contrario –
abbandonare il paradiso
non è sempre un passo cosciente –
si crede
di allontanarsene appena
piluccare una mela – o poco più
ma la strada era
straniera
a senso unico
senza inversioni a u –
il passato se ne sta
in sorrisi d’azzurro
e non passa –
anche se dopo
è diventato inferno
o un purgatorio senza redenzione –
il passato non muta d’una virgola
ciò che è stato è stato
si può provare
a dimenticarlo ridistribuirlo
ma è vano sminuirlo
o mistificarlo –
sarebbe forse meglio
lasciarti come e dove sei
lasciare che la tua strada
trovi i propri paracarri
non capovolti o strappati –
e a noi ricordi miti
sempre più sfuocati –
parvenze senz'anima i sogni –
se si avverano (averli lasciati
dov'erano – ben custoditi, indefiniti)
sono aguzzi e maldestri pacati
sfrangiati mal calibrati
non assomigliano mai al prima
di sé – ma al peggio
del resto – e questo è tutto –
la tenacia di vendetta
è già una sconfitta –
non importa come andrà a finire
quel che premeva è già finito
perso un attimo persa la partita –
ciò che ne sortirà
sarà gelido e inetto
secco alla nostra sete –
certo non diventerò mai grande
e mai maturerò (come sa
di mela rossa questo verbo futuro)
certo qualcosa di me vuol restarsene
indietro – per paura per dispetto
per cocciutaggine di natura –
chissà quanto spesso
ci si accorge che il paradiso
era la vita di prima
e non l'adesso –
di prima – quando s'era deciso
di saltare il fosso
senza sospettare
che l'insofferto
era l'unica possibilità di casa
e piccole felicità –
il deserto intorno
e nessuna maniglia
né scorrimano da afferrare
prima che tempeste di sabbia
mi travolgano e trascinino
ancor più lontano –
troppe sconfitte e addii
questo tempo non mi somiglia
sarà una vendetta degli iddii
sempiterni sfidati – o un risentimento
tutto questo vento
distruttore – questa nuvolaglia
bigia – di battaglia –
domani potrebbe non esserci
che ne sappiamo?
progettiamo sul vuoto
ci arrabattiamo a confondere
problemi a racimolare
giorni come denari –
ma potrebbe essere l'acqua il vento
o il fuoco
potrebbe tutto svanire –
inesorabile un attimo
o poco a poco –
ci sono giorni in cui scrivere
sembra possibile –
non c'è da esultare
vengon da soli i buchi
i silenzi cocciuti
che non dilacerano
altri chiassi altre voci –
vien da solo il disincanto
inerte informe afono
quando nessun rumore
fa vibrare le corde
del cuore –
non so se mi congedi
o concedi proroghe
aspetto un segno – forse l’hai già
dato e devo interpretarlo averne
il coraggio conoscere la chiave
d’ogni metafora –
ma ho già tanto da fare e sono stanca
d’indagare di dedurre
sospettare –
ti ricambio con gelidi sguardi
perché troppo il tempo passato –
giungi tardi –
e la distanza è misurata
finalmente in metri e centimetri –
e soddisfatta
la mia ossessione
per la precisione –
sempre Pemberley mi salva
una Thornfield straordinaria –
qualche aria di melodramma
mi allenta l'esistenza
quando il buio mi sprofonda
negli invece nei forse nei senza –
c’è un pezzo di Francia
che m’aspetta – ci andrò
quando l’eco molesta
d’un qualche bene inavuto
penetrerà anche il buco
in cui ho trovato un poco
di pace – c’è un pezzo di Francia
evocatore di nomi
tenerezza emozioni
là pianterò le tende
fino a che incomberà
l’obbligo del ritorno
a quest’orizzonte disadorno –
non fu più tempo di scrivere
poi – troppa la stretta
pressante la fretta
di lontanare –
bisognava tentare di vivere
altre situazioni
altre visioni di neve
cadere lenta
scordata la tormenta –
la nebbia resta fitta
da tanto non si vede il cielo –
in questi nostri inverni
stiamo inermi
prigionieri – separati
contro un nemico senz'armi –
fui principessa un giorno poi diventai
governante – la casa era la stessa
guardarla dalle cucine
o dal salotto un’inezia
di spiriti comodi – disabituati
a cambiare di ruolo
a dismettere broccati con grembiali –
l’importante è certo il focolare
i piani alti i seminterrati
le scalinate immutate –
invecchiare non è metter su rughe
è convincersi a cambiare –
le pecore smarrite
conoscono anfratti
dove nessuno le sa scovare
dileggiano il richiamo del pastore –
solo del cane temono
e lo depistano con miscugli di odori
che le separi dal gregge –
di qualsiasi colore –
non date mai il mio nome ad una via pure se diventassi – Dio non voglia – martire o scriba – identica follia – non negatele la storia – (ma ignorano le parole si frastornano di balbettamenti – non sanno affondare l'anima nei silenzi reticenti orecchio a terra come gli indiani nel travestimento dei bambini) a Rimini piazza Indipendenza diventerà piazza Federico Fellini –
è ottobre il mese
della poesia
le prime nebbie
le sere precoci
consolano dell'estate
e della troppa luce –
faccio ancora in tempo
a demitizzarmi
prima che qualcuno tenti
di montarmi la testa –
soffro di capogiri
cadrei dal piedestallo
sarei colta troppe volte
in fallo –
A BATTAGLIA FINITA
oltre il muro dei vetri
si risveglia la vita
che si prende per mano
a battaglia finita
(F. De André)
elidevo la sorveglianza
che avrei dovuto allertare
di me – e non segnavo l’apostrofo
della mancanza –
i tarli cui non voglio dare voce
polverizzano non solo cassetti
d’incerte memorie
ma le travi d’una casa
nemmeno sicura d’essere stata
mai costruita –
quando tutto crollerà
non sarà il caso d’adombrarmi
da anni udivo quel tramestio
e tossivo più forte
per assordarmi –
suggerisce la pioggia
queruli varchi – la disillusione
la fa da padrona –
e trascinare i passati
il presente e il presunto
domani – senza panico
senza porre questioni
rigida nei dogmi
delle ossessioni –
voglio una vita sottotono
mi vergogno
del chiasso – eppure
non posso piantonare la porta
ascoltare dalla stanza accanto
un mondo che penetra ogni fessura
traversa i muri
vivente di voci e premura
fa a pezzi la saudade
di chi comunque perde
balbetta e cade –
sospesi sopra un filo
cerchiamo di tenerci in equilibrio
prima che un passo maldestro
trasformi l’applauso in ludibrio –
se serve per il tuo affrancamento
questo allontanamento
a lievi passi
ed i brevi ritorni – se a me lasci
giorni sospesi
e contorni controllati
da sismografi
sempre più sofisticati –
preferisco sbattere la porta
così violenta
da spaccare il pennino –
che non mi penta
d’aver perduto
l’arguzia del divertimento –
naturalmente potevo imboccare
altre strade
sperimentare altre direzioni
potevo disorientarmi e qualcuno
avrebbe capito – giustificato –
naturalmente potevo retrocedere
rallentare fermarmi
congetturare altre possibilità
finché ero in tempo
a stento lo ammetto
adesso – eppure una risata
celata sa
che fa lo stesso –
saresti stato la spalla
cui poggiare le parole
in sovrappeso – ne avrei avuto
sollievo – e la mano
che ricompatta la cera
fessurata dal gelo –
non ho armi per combatterti
finirti –
te ne andrai dalla memoria
sparirai
avanti che me ne accorga –
ieri sono stata declinata
da una governante
oggi posticipata ad un film
determinante –
vorrei sapere quale liquidazione
mi spetterà domani –
non che tenersi pronti
serva all’inazione – ho sceso tante scale
senza appoggio o sostegno
inciampando annaspando –
non si può rotolare
con dignità
scatta comunque l’ilarità –
è tempo d’invecchiare
basta con creme e fondotinta –
non serve fare finta
che domani cambierà – domani –
senza sfatare vecchie velleità –
sappiamo il terminale
dove il giorno s’affanna
per poter tramontare –
… Itaca finalmente
qui cesserà l’antico errabondare –
La copertina è opera di Stefano Boccafoglia.
Il libro è VANNA MIGNOLI, Di sillaba e di rima, Manni editore, 2004