Il perché di un autoritratto

Sofonisba Anguissola, Autoritratto, Chantilly, Museo Condé

Ogni tanto mi chiedono una fotografia di me. E io do questo un ritratto sostitutivo, ma nel quale, in qualche modo, mi riconosco.


È di Sofonisba Anguissola.


Si trova al castello di Chantilly, in Francia. È in una saletta, insieme a decine di altri ritratti. Lei la si distingue subito, perché ti guarda con quell’intensità lì. Con la consapevolezza di essere diventata ritrattista di corte solo grazie ai suoi meriti. E la corte era quella cupa e severa di Filippo II. Quello del don Carlos; quello dell’aria Ella giammai m’amò… quel cor chiuso è a me. Se non la conoscete, quell’aria verdiana sublime, cercatevela; cantata da Ghiaurov, magari.


Ritorno a Sofonisba, che era salita fino a quel rango. Nonostante. Nonostante fosse donna e zitella. In pieno ‘500. Era nata a Cremona nel 1532, giunse alla corte di Spagna a 27 anni, si sarebbe sposata solo nel 1573.


In questo ritratto mi ritrovo. Forse è come vorrei essere. Nei lineamenti, nella testa eretta, negli occhi così incisivi, messi a nudo dallo specchio, come solo un grande pittore sa fare di sé, in un autoritratto. Ci sono cose in quello sguardo, cose che non sanno le parole. Perché, come diceva la Babette del Pranzo, parlando di sé:

“Una grande artista non è mai povera: abbiamo qualcosa di cui gli altri non sanno nulla”.

Ho citato:
GIUSEPPE VERDI, Don Carlos
KAREN BLIXEN, Il pranzo di Babette, il Capricci del destino, Feltrinelli